Siamo partiti in sei, Giovedì 14 Febbraio con un furgone carico di materiale ed emozioni. Ci aspettavano 800 km di scambio d’idee, di chiacchiere serie e di pensieri leggeri, ma via via che ci avvicinavamo al confine Bosniaco il silenzio diventava sempre più protagonista del nostro viaggio.
Due di noi, Michele e Giampiero, già conoscevano un po’ di quello che avrebbero visto; gli altri solo i racconti sentiti strada facendo. La sera all’imbrunire abbiamo passato il confine, un salto temporale dai giorni nostri ad un Italia di quaranta anni fa. Appena scesi nel luogo dove aspettavamo il primo dei nostri contatti già si percepiva un’aria diversa, l’odore di una città che ancora deve veder rimarginate le ferite di una guerra che l’ha scossa nel profondo. E che nello stesso tempo accoglie volente o nolente una moltitudine di migranti rimasti nella morsa formata dai paesi dai quali sono scappati (miseria, violenza, guerra, paura, fame sono i nomi che hanno scritto sui loro zaini, per chi li ha) ed il confine che li respinge.
Alcuni ragazzi si sono avvicinati e con un inglese stentato ci hanno chiesto qualche spicciolo per mangiare, una sigaretta o qualcosa per coprirsi. Quei primi sguardi li abbiamo ritrovati ad ogni angolo, ad ogni strada che abbiamo percorso nei giorni successivi. Preso contatto con i ragazzi che ci stavano aspettando abbiamo scaricato un po’ di cose e ci siamo dati appuntamento al mattino successivo.
Al risveglio ci ha accolto il freddo, siamo qui per aiutare e quindi ci muoviamo, sistemiamo il magazzino, dividiamo le cose in modo che siano più facilmente accessibili a chi resterà li per la distribuzione, smontiamo una casetta di legno che verrà rimontata nei giorni successivi in altro luogo, due di noi Federico e Michele, vanno in mensa a dare una mano a lavare i piatti, facciamo quello che ci dicono, ascoltiamo racconti, memorizziamo quanto ci capita di vedere, ci informiamo per farci una nostra idea e sopratutto per capire quale sarà l’aiuto migliore da poter dare in futuro.
Proviamo ad entrare al Miral, un campo profughi che consta di 800 presenze e che è gestito da IOM, un associazione europea. Arriva una ragazza che parla italiano e ci dice di provare ad aspettare, che forse arriverà il responsabile del campo. Proviamo a scrivere una mail per ottenere i permessi di accesso. Ma questa nostra iniziativa non ci porta al traguardo sperato. Li fuori assistiamo all’andirivieni di ragazzi che hanno il permesso di entrare e di altri che provano nonostante non siano in possesso di quello stesso permesso. Ovviamente questi ultimi vengono respinti. Un ragazzo reclama dicendo che sono tre giorni che non mangia e che non dorme. Vorrebbe recarsi a Bihac, circa 80 km da dove siamo noi. Una destinazione troppo lontana per chi può muoversi solo a piedi. Probabilmente resterà ancora una notte in mezzo al bosco, meno 3 gradi e stomaco vuoto e noi siamo lì, inerti, ad ascoltare ed assorbire un po’ del suo dolore e della sua disperazione. Arriva la sera e ci ritroviamo a cena, riusciamo a scherzare tra noi ma gli sguardi sono quelli di chi si sta interrogando su quanto visto, filtriamo le notizie e le immagini ognuno attraverso i propri pensieri le proprie esperienze.
Il giorno successivo ancora smistamento indumenti, lavaggio piatti e successiva partenza per Bihac. Abbiamo appuntamento con una ragazza di un’altra associazione alla quale lasceremo una parte del carico e dalla quale apprendiamo le ultime novità di quello che in quei luoghi sta accadendo. In questa città ci sono due campi profughi dove moltissime famiglie trovano ristoro.
Si parla di qualche migliaio di profughi provenienti da quella che si chiama rotta balcanica, argomento di cui sapremo di più una volta tornati ascoltando il racconto di Diego ed Anna che su questo hanno scritto un libro (lungo la rotta balcanica). Salutiamo e torniamo in hotel. Domenica mattina siamo di nuovo in strada, si torna a casa, ancora dei confini da passare. Per noi bastano le nostre carte d’identità, ancora controlli, ancora km ed in serata arrivo a Porto Recanati.
Già, noi una casa l’abbiamo, quella casa che invece le persone che abbiamo visto al di là del confine stanno cercando e che probabilmente non troveranno mai. Abbiamo consegnato tutto il nostro carico, abbiamo dato una mano a fare piccole cose ed abbiamo sondato il terreno per valutare cosa fare di utile in futuro. Abbiamo imparato parole come “game” (il tentativo di passare il confine) ed abbiamo capito quale enorme rischio corrono quelli che si avventurano in questo “gioco”. Abbiamo imparato a dire “border” per indicare il confine e “squatter” per indicare quelli che non sono neanche riconosciuti come migranti e quindi non possono entrare nei campi dove una scatola di sardine, una fetta di pane ed una minestra di patate è il pasto quotidiano minimo garantito. Abbiamo capito che eravamo al cospetto di un flusso inarrestabile e che la tensione cresce di ora in ora e che queste anime perse non hanno un futuro.
E’ frustrante aspettare il tramonto dall’alba e l’alba dal tramonto, senza una speranza, senza futuro, in attesa solo di continuare a fare il tuo “game” con qualcuno che ad ogni tuo passo avanti sposta l’arrivo un po’ più in la. Un gioco (game, che brutto appellativo…) dove il premio è una vita migliore e dove per avere successo devi mettere in gioco la tua stessa vita. E dove il tuo essere viene quotidianamente annientato dal tempo che scorre senza una speranza di una luce che possa illuminare il tuo futuro. Ci chiediamo cosa possiamo fare per alleviare tanta disperazione. Probabilmente poco, ma ci stiamo lavorando perchè sappiamo che anche il più piccolo aiuto ha un valore inestimabile.
Dare una speranza, dare una condizione di vita migliore a questi che sono poco più di fantasmi, persone a cui è stato tolto anche il futuro è un utopia? Spesso ci rendiamo conto di poter solo portare una goccia dove servirebbe un oceano. Ma davanti a tanta disperazione non possiamo rimanere inerti e con le mani in mano.
Noi come sempre ci siamo! Con il vostro calore e il vostro aiuto.